Se un ragazzo di quindici anni uccide la fidanzata di tredici, significa che abbiamo fallito tutti

Aurora Tila è una vittima di femminicidio: la ragazza, 13 anni, era di Piacenza, dove è stata barbaramente uccisa dal fidanzato di 15 anni.

È colpa dei social, dei video che girano su TikTok, delle serie tv, delle canzoni di oggi, dei trapper, dei videogiochi, dei genitori (gli altri, però), degli insegnanti. Fateci caso: non è mai colpa nostra. Non siamo mai responsabili di nulla, perché quello che succede, se non ci vede protagonisti, non ci riguarda. Quello che facciamo è tracciare subito un confine che separi noi e gli altri. Anzi, rettifico: noi dagli altri. Gli altri non sono semplicemente quelli che sbagliano, ma quelli che avrebbero potuto fare meglio o di più. E noi siamo quelli che si indignano per una manciata di giorni.

Il risultato è che una ragazza di soli tredici anni muore uccisa dal fidanzato di quindici e nessuno sa come parlare di un fatto del genere. Perché non è un fatto, è un fenomeno. Non ha un (solo) colpevole, ha dei responsabili. Non è un caso, si tratta di violenza sistemica.

Violenza sulle donne: ecco perché non sappiamo (ancora) parlarne correttamente

Ma cosa possiamo fare noi, concretamente? Possiamo, innanzitutto, parlare della violenza contro le donne come di un fenomeno sistemico e non di una serie di casi isolati. Il punto è che i più non sanno cosa sia la violenza sulle donne. Non sanno che è sistemica e ha radici profonde, culturali, sociali. Non è il soggetto, in questo caso la ragazza di tredici anni, a rendere – una violenza – violenza sulle donne, ma è il motivo, la radice, la cultura che c’è dietro la violenza stessa. Quindi, se è vero che il colpevole è uno soltanto, ovvero il fidanzato omicida, è altrettanto vero che i responsabili sono, siamo molti di più: è la società. E la società è fatta da tutte e tutti noi.

Ma come si cambia una società patriarcale, maschilista e misogina? Partendo, innanzitutto, dal modo in cui si parla di un femminicidio. Ad esempio, nel caso di Piacenza, qualcuno chiama l’omicida “fidanzatino”, qualcun altro “mostro”: è sbagliato in entrambi i casi. Nel primo, perché si finisce per empatizzare con il colpevole, fino a deresponsabilizzarlo o a renderlo, alla meglio, corresponsabile dell’omicidio, del resto è il “fidanzatino” della vittima, mica il cattivo della storia; nel secondo caso, invece, è sbagliato, oltre che deviante, chiamarlo “mostro” perché lo eleva (o lo abbassa, dipende dai punti di vista) a qualcosa di intangibile, distante, estraneo alla realtà. Insomma, da una parte ci siamo noi, quelli che certe cose non le fanno e non le farebbero mai, dall’altra lui, il “mostro”, quello da cui prendiamo le distanze con tutte le nostre forze.

La cultura dello stupro alla base dei femminicidi: ecco che cos’è

Inoltre, parlare del femminicidio di Piacenza (e di tutti gli altri femminicidi) come di un evento isolato significa non prendere in considerazione o sottovalutare quello che c’è alla base di un caso del genere: la cultura dello stupro.

L’espressione “cultura dello stupro” si riferisce a una “cultura” nella quale la violenza di genere è molto diffusa, minimizzata e normalizzata. Ma c’è di più: non solo la violenza in sé, ma anche gli atteggiamenti e le pratiche che la giustificano o incoraggiano fanno parte di questa cultura. Nello specifico, fa riferimento a una serie di comportamenti di cui siamo colpevoli (spesso inconsciamente perché assuefatti da una società maschilista): l’utilizzo di un linguaggio misogino, l’oggettivazione del corpo delle donne, la stigmatizzazione dei comportamenti sessuali delle donne e, soprattutto, la colpevolizzazione della vittima quando subisce un abuso. Questa cultura, insomma, dà alla vittima la responsabilità della violenza che ha subito.

Quello che possiamo e dobbiamo fare, dunque, è non parlarne come se si trattasse di un caso isolato, ma di un evento che fa parte di un fenomeno sistemico.

Un uomo che uccide una donna è solo l’ultimo anello di una catena di violenza, che è conseguenza di una cultura, che a sua volta è l’esito di una società che non sta facendo abbastanza. Siamo tutti responsabili. Lo so, è fastidioso sentirselo dire. Ma è una verità con cui dobbiamo fare i conti. Prima lo faremo, prima ci salveremo da questa strage di donne colpevoli di essere donne.

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