Ecco una riflessione sul titolo di Repubblica sulle sulle quattro atlete che compongono la squadra azzurra di spada femminile.
Il titolo (anzi, i titoli) di Repubblica sulle quattro atlete che compongono la squadra azzurra di spada femminile rivelano che abbiamo ancora un problema con le donne, specie con quelle che non hanno un ruolo decorativo. Rossella Fiamingo, Mara Navarria, Alberta Santuccio e Giulia Rizzi: questi sono i loro nomi, ma per il quotidiano la Repubblica sono “l’amica di Diletta Leotta” (poi diventata “la musicista”), “la francese”, “la psicologa” e “la mamma” (diventata “la veterana”).
Insomma, alle quattro sportive non è stata concessa nemmeno la dignità di avere un’identità. Ma era così difficile chiamarle con il loro nome e cognome? A quanto pare sì. Vi spiego il perché, anzi, i perché. Sono due.
La Repubblica: abbiamo (ancora) un problema con le donne…
Il primo: un certo tipo di linguaggio, che oggettifica la donna o la riduce al suo status rispetto a un uomo (“moglie di”, “fidanzata di”, “figlia di”) è esistito da sempre, ma – cosa ben più grave – è sempre stato considerato normale, non svalutante, figuriamoci pericoloso. Il sottinteso è che una donna, che ha un ruolo di potere o che raggiunge un traguardo, non basti a se stessa e abbia bisogno di altri elementi per giustificare la posizione e il successo ottenuti. Di solito si tratta di elementi frivoli (come l’amicizia con la conduttrice Leotta), per tentare di indebolirla o deprezzare il suo trionfo (ha vinto, sì, ma è amica di una showgirl), o facilmente riconducibili alla sua “condizione” di donna (la maternità).
Sappiamo bene che un atleta uomo non sarebbe mai stato definito “l’amico di” o “il papà”, ma sarebbe stato chiamato con il suo nome e cognome. Perché un uomo di potere, o che raggiunge un risultato importante, non ha bisogno di nulla se non della sua identità (di genere): è maschio, ce l’ha fatta, è normale così (e anche su questo ci sarebbe da dire, perché – allargando il campo – si arriva alla mascolinità tossica che fa male prima di tutto agli uomini stessi).
…e con il giornalismo
Il secondo “perché”, invece, non riguarda il maschilismo di cui la nostra società è intrisa. Riguarda, invece, il giornalismo online, che – diciamolo subito – non è giornalismo, non ha il tempo di esserlo. Mi spiego meglio: un titolo come quello di Repubblica, per una notizia che hanno dato – contemporaneamente – decine e decine di magazine e giornali online, è vincente. Perché? Semplice: oggi si parla solo di Repubblica, migliaia e migliaia di utenti hanno cliccato sull’articolo per accertarsi che fosse tutto vero e, ultimo punto (ma non per importanza), c’è una larga fetta di italiani che dice «Che c’è di male a dire “mamma” o “amica di”? Mica le hanno offese».
Ecco, il cosiddetto giornalismo online non è giornalismo e non ha il tempo necessario per esserlo, perché bisogna dare all’utente quello che vuole in fretta: immediatezza, semplificazione e, soprattutto, un’attrazione, qualcosa che catturi la sua attenzione e lo incentivi a restare. Quel titolo è la vetrina di un negozio: fuori c’è la merce migliore (dove “migliore” sta per “invogliante”), dentro niente di diverso da tutti gli altri negozi.
Ecco, Repubblica, oggi, ci rivela che abbiamo tanti problemi e ancora nessuna soluzione, se non riconoscerli.