La Banda della Uno Bianca tra il 1987 e il 1994 sconvolse l’Italia era composta da sei componenti, di cui cinque membri della Polizia.
La Banda della Uno Bianca tra il 1987 e il 1994 sconvolse l’Italia, operando soprattutto in Emilia Romagna. Era composta da sei componenti, di cui cinque membri della Polizia di Stato. Scopriamo tutto, tra servizi segreti e indagini.
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Cosa è e chi sono i componenti della Banda della Uno Bianca?
La Banda della Uno Bianca è composta da sei criminali che tra il 1987 e il 1994 hanno sconvolto e terrorizzato l’Italia, operando soprattutto in Emilia Romagna. Cinque di loro erano membri della Polizia di Stato.
Perchè il nome Banda della Uno Bianca
È stato dato il nome Banda della Uno Bianca in relazione al modello di automobile, la Fiat Uno, utilizzato in alcune delle loro azioni criminali. A quei tempi era un’autovettura facile da rubare ma difficilmente identificabile data l’estrema diffusione in quel periodo.
Chi sono i componenti della Banda?
Cinque dei sei componenti della banda armata erano membri della Polizia di Stato. Tre erano i fratelli Savi, Roberto, Fabio e Alberto. Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti, gli altri criminali, mentre Luca Vallicelli era un membro minore che partecipò soltanto alle prime rapine, concluse senza omicidi.
Roberto Savi
È il maggiore dei fratelli Savi, di professione poliziotto. La vera madre di Roberto muore quando lui ha appena due anni. Suo padre, Giuliano, si risposa e dalla nuova unione nascono altri due figli: Fabio ed Alberto. Per tenere unita la famiglia, Giuliano, non racconterà mai ai ragazzi la verità. La scopriranno loro, dopo dell’arresto. Attualmente è in carcere a scontare l’ergastolo.
Fabio Savi
Fratello minore di Roberto e co-fondatore della banda, nel 1987. I due sono stati gli unici membri presenti a tutte le azioni criminali della Banda della Uno Bianca. Non aveva una professione stabile ma lavorava in maniera saltuaria. Attualmente è in carcere a scontare l’ergastolo.
Alberto Savi
È il fratello minore di Roberto e Fabio, anche lui poliziotto. I tre formavano la struttura principale della Banda della Uno Bianca. Attualmente è in carcere a scontare l’ergastolo.
Pietro Gugliotta
Nato a Catania nel 1960, non partecipava mai alle azioni omicide del gruppo. Venne comunque condannato a diciotto anni di reclusione. Anche lui poliziotto, svolgeva la funzione di operatore radio nella questura di Bologna assieme all’amico Roberto Savi. Venne scarcerato nel 2008, dopo quattordici anni di reclusione, grazie all’indulto e alla legge Gozzini.
Marino Occhipinti
Nato a Santa Sofia, il 25 febbraio 1965. Membro minore della banda, prese però parte a un assalto a un furgone della Coop di Casalecchio di Reno, il 19 febbraio 1988, durante il quale morì una guardia giurata e per questo venne condannato all’ergastolo. Anche lui poliziotto presso la squadra mobile di Bologna, al momento dell’arresto, avvenuto il 29 novembre 1994, era vice-sovrintendente della sezione narcotici della Squadra mobile.
Dal 2002 lavora presso la cooperativa Giotto. Il 30 marzo 2010, con un decreto motivato del tribunale di sorveglianza, Marino Occhipinti, dopo sedici anni di detenzione, usufruì di un permesso premio di cinque ore per partecipare ad una Via crucis. L’11 gennaio 2012 gli venne concessa la semilibertà. Marino Occhipinti è stato scarcerato il 2 luglio 2018 a seguito della richiesta di libertà. Il Tribunale di sorveglianza ha constatato che il suo pentimento è autentico, rivistitando in modo critico il suo passato e ritenendolo non socialmente pericoloso. In un’intervista avvenuta dopo il rilascio chiese perdono ai familiari della guardia giurata uccisa.
Luca Vallicelli
Anche lui poliziotto al momento dell’arresto, avvenuto il 29 novembre 1994, era agente scelto presso la sezione Polizia Stradale di Cesena. Membro minore della banda, partecipò solamente alle prime rapine, che si conclusero senza omicidi. Patteggiò tre anni e otto mesi in carcere. Attualmente è un uomo libero, destituito, ovviamente, dalla Polizia di Stato.
Tutti i numeri della Banda della Uno Bianca
- Centotre azioni delittuose;
- ventiquattro persone morte;
- centodue feriti;
- sei componenti, tutti criminali, di cui cinque membri della Polizia di Stato e tre fratelli;
- una banda: quella della Uno Bianca;
- quattro ergastoli Roberto, Fabio e Alberto Savi e per Marino Occhipinti;
- ventotto anni di carcere per Pietro Gugliotta, diminuiti poi a 18;
- tre anni e otto mesi di reclusione per Luca Vallicelli;
- 19 miliardi di vecchie lire versate dallo Stato italiano ai parenti delle 24 vittime.
Tutta la storia della Banda della Uno Bianca
Chi non ha vissuto a cavallo degli anni ottanta, tra il 1987 e il 1994 potrebbe pensare che si tratti della trama di una di quelle serie televisive cui abbiamo ormai fatto l’abitudine. Invece questa è la vera storia italiana di violenza, così efferata da superare qualsiasi immaginazione, letteraria o scenica.
La Banda della Uno Bianca cominciò a compiere i suoi crimini dal 1987, dedicandosi nelle ore notturne alle rapine dei caselli autostradali lungo l’autostrada A14. Il 19 giugno 1987 la banda mise a segno il primo colpo con una rapina al casello di Pesaro, consumata a bordo della Fiat Regata grigia di proprietà di Alberto Savi alla quale avevano apposto una targa falsa. Il bottino ammontava a circa 1 300 000 delle vecchie lire. Subito dopo il primo colpo la banda mise a segno dodici rapine ai caselli in circa due mesi.
Nell’ottobre 1987 organizzarono un tentativo di estorsione nei confronti di un autorivenditore riminese, Savino Grossi. Il rivenditore fece finta di cedere al ricatto ma avvertì il commissariato di Rimini. Il 3 ottobre Savino Grossi si recò in autostrada con la sua autovettura nascondendo nel portabagagli un poliziotto. Con l’intervento della Polizia scaturì un conflitto a fuoco durante il quale rimase gravemente ferito il sovrintendente Antonio Mosca, che sarebbe morto il 29 luglio 1989 dopo un lungo periodo di sofferenza. L’omicidio di Mosca fu il primo della serie che avrebbero commesso i componenti della banda.
La strage del Pilastro
Il 4 gennaio 1991, intorno alle 22.00, nel quartiere Pilastro di Bologna, una pattuglia dell’Arma dei Carabinieri fu trucidata dalle pallottole del gruppo criminale.
Sembra che a banda si trovasse in quel luogo per caso, essendo diretta a San Lazzaro di Savena in cerca di un’auto da rubare. All’altezza delle Torri, in via Casini, l’auto della banda fu sorpassata dalla pattuglia dall’Arma. La manovra fu interpretata dai criminali come un tentativo di registrare i numeri di targa e pertanto essi decisero di liquidare i carabinieri. Dopo averli affiancati, Roberto Savi esplose alcuni proiettili verso i militari, sul lato del conducente.
La potenza delle armi utilizzate dalla banda non lasciò speranze ai tre carabinieri componenti la pattuglia che furono finiti con un colpo alla nuca. Si trattava dei giovani Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini. Il gruppo criminale si impossessò anche del foglio di servizio della pattuglia e si allontanò dal luogo del conflitto a fuoco. Il crimine fu rivendicato dal gruppo terroristico Falange Armata che non fu però ritenuta inattendibile. La strage rimase impunita per circa quattro anni.
Gli inquirenti seguirono delle piste errate, che li portarono a incriminare soggetti estranei alla vicenda. La DIGOS di Bologna dichiarò di avere una testimone oculare. Furono arrestati i camorristi Santagata e Medda del clan Cutolo e venne condotta una maxi-operazione con 191 arresti sul quartiere del Pilastro definita Quinta mafia per una serie di reati ulteriori connessi a quelli della Uno bianca, operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna che vi impiegò enormi energie investigative. Il 24 gennaio 1995 i camorristi in arresto furono dichiarati estranei ai fatti dalla corte di Assise di Bologna perché i veri assassini confessarono il delitto durante il processo.
Le indagini sulla Banda della Uno Bianca
Agli inizi del 1994, il magistrato di Rimini Daniele Paci, costituì un pool di investigatori per risolvere il caso, dopo sette anni di omicidi e crimini ancora senza un colpevole reale, nonostante un grande numero di arresti nel corso degli anni precedenti, poi dimostratisi errati e fuorvianti. Il pool, inizialmente non riuscì ad ottenere molto, solo la ricostruzione di un identikit di un bandito, registrato a volto scoperto durante la rapina in banca del 3 marzo 1994.
Verso la metà del 1994, il pool dei magistrati riminesi fu sciolto e la direzione delle indagini venne consegnata ad un pool di magistrati a Roma. Due poliziotti della questura di Rimini, l‘ispettore Luciano Baglioni e il sovrintendente Pietro Costanza, che avevano collaborato con l’appena disciolto pool di magistrati riminesi, chiesero alla procura che il lavoro del pool riminese non venisse perso ed avviarono delle indagini autonome, volte a scoprire i componenti della Banda della Uno bianca e, ottenuto il permesso dal procuratore di Rimini, cominciarono a dedicarsi praticamente a tempo pieno alle loro indagini, mettendo in atto appostamenti, ricerche, controlli agli istituti di credito rapinati e cercando di capire le modalità operative della banda.
I sospetti
L’ispettore Luciano Baglioni e il sovrintendente Pietro Costanza, incaricati delle indagini, eseguirono un minuzioso lavoro di studio di ogni singolo delitto commesso dalla banda. Iniziarono a sospettare che i componenti potessero essere persone all’interno delle forze di Polizia, vista l’abilità dimostrata con le armi da fuoco. La banda usava in diverse occasioni di armi non facilmente reperibili, risultando inafferrabile, probabilmente dovuta a una conoscenza del modus operandi delle forze dell’ordine.
Questo avrebbe anche spiegato perché i criminali riuscissero sempre a evitare le pattuglie e i posti di blocco delle forze dell’ordine, oltre che la loro probabile conoscenza di itinerari che permettessero rapide vie di fuga dopo ogni colpo. Baglioni e Costanza fecero poi una considerazione che si rivelerà fondamentale: i banditi conoscevano troppo bene le abitudini dei dipendenti delle banche assaltate. Questo significava che svolgevano una puntigliosa opera di documentazione e di controllo prima di compiere la rapina. Decisero quindi di comportarsi come loro, passando le giornate ad appostarsi davanti alle banche situate nelle zone che i criminali preferivano colpire, in attesa di notare qualche persona sospetta.
La conclusione e gli arresti dei componenti la Banda della Uno Bianca
Il 3 novembre 1994 Fabio Savi eseguì un sopralluogo presso una banca a Santa Giustina nel riminese, davanti alla quale si trovavano appostati Baglioni e Costanza. Savi giunse sul posto con una Fiat Tipo bianca, che però esibiva una targa irriconoscibile per la sporcizia. Questo destò la curiosità degli investigatori presenti sul posto, che confrontarono la fisionomia del conducente con quella rimasta impressa nei filmati ripresi nelle banche rapinate. Ne riscontrarono una vaga somiglianza e pertanto decisero di seguirlo. Fabio Savi li condusse infine presso la sua abitazione, a Poggio Torriana. Da questo momento, le indagini subirono uno sviluppo sempre più nitido, fino a svelare le responsabilità dei criminali, a cominciare dall’arresto di Roberto Savi.
I processi e le condanne
I processi si conclusero il 6 marzo 1996, con la condanna all’ergastolo per i tre fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi e per Marino Occhipinti. Ventotto anni di carcere per Pietro Gugliotta, diminuiti poi a diciotto. Luca Vallicelli, componente minore della banda, patteggiò una pena di tre anni e otto mesi; venne inoltre stabilito che lo Stato italiano versasse ai parenti delle ventiquattro vittime, la somma complessiva di diciannove miliardi delle vecchie lire.
Rapporti con i servizi segreti italiani
Nel corso di una puntata del programma televisivo Blu notte – Misteri italiani, condotto da Carlo Lucarelli, un giornalista ha affermato che dietro la Banda della Uno Bianca fossero celati in effetti attività dei servizi segreti.
È stato Fabio Savi a smentire ogni riferimento, raccontando durante nel 2001 un’intervista a Franca Leonsini, durante il programma Storie Maledette:
Dietro la Uno bianca c’è soltanto la targa, i fanali e il paraurti. Basta. Non c’è nient’altro. Il movente delle attività criminali della banda era procurarsi denaro.
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