Antonello Venditti ha spalancato il vaso di Pandora sul tema della disabilità: in Italia abbiamo un serio problema da risolvere al più presto
Potremmo stare giorni e giorni a condannare le parole (deprecabili) che Antonello Venditti ha pronunciato durante il suo concerto a Barletta. Potremmo accettare le sue scuse e le sue giustificazioni («Ho sbagliato perché nel buio non mi sono accorto di questa ragazza, pensavo che fosse una semplice contestazione politica alla quale sono abituato»). Insomma, possiamo esprimere la (solita) indignazione a tempo determinato (domani sarà già finita) oppure approfittare del caso di Venditti per dirci che abbiamo un serio problema con la disabilità.
La storia di Venditti rivela che non sappiamo parlare di disabilità
Ieri, tutti i giornali che hanno riportato i fatti di Barletta, nel parlare della ragazza protagonista della vicenda, hanno usato i termini “disabile”, “persona disabile” o – addirittura – “ragazza speciale”. Questo è, a oggi, un fatto molto grave. Per anni, le persone con disabilità sono state definite “disabili”, ma anche “invalidi”, “handicappati”, “diversamente abili” e il fatto che avvenga ancora adesso, che si sta faticosamente cercando di costruire una società più inclusiva, in cui si riconosce l’esistenza di chiunque attraverso l’uso corretto della nostra lingua, è inaccettabile.
Usare bene le parole è fondamentale perché ci permette di abbattere gli stereotipi che, da sempre, segnano una distanza tra noi e gli altri, dove per “altri” si intende chi, semplicemente, non ci somiglia. Nel caso specifico della disabilità, evitare termini stigmatizzanti come “disabile”, “invalido”, “diversamente abile” è fondamentale, perché – utilizzandoli – si fa coincidere la persona con la sua disabilità. La disabilità, però, è solo una parte della sua vita.
Termini da non utilizzare più: ecco come parlare di disabilità
È bene eliminare termini come “handicappato” (l’handicap esprime la condizione di svantaggio sociale di una persona rispetto alle persone ritenute “normali”), “invalido” (che vuol dire “non valido”), “diversamente abile” (sottintende che ci sia un’abilità normale di cui i “diversamente abili” sono sprovvisti), “disabile” come sostantivo (che, come dicevo, fa coincidere una caratteristica della persona con la persona stessa), “persona speciale” (che sa di mancia, di gratifica, e punta i riflettori su presunte abilità speciali, diverse da quelle ordinarie delle persone “normali”).
Lo stesso Venditti, nel chiedere scusa, ha detto «Voglio bene ai ragazzi speciali, lo possono testimoniare quelli che vengono ai miei concerti», come se le persone con disabilità fossero una categoria “speciale”, appunto, una massa confusa e indistinta a cui si vuole bene a prescindere, dal momento in cui la loro “specialità” (l’essere persone con disabilità) è la loro unica cifra. Ma volere bene a una persona per la disabilità che ha, dal momento in cui la si considera la sua sola caratteristica, è quanto di più discriminatorio si possa fare. Anche perché, in questo caso, “volere bene” vuol dire “accettare”, alla meglio “accogliere”, quindi è come come se si facesse una concessione alle persone con disabilità, le quali – pensate – sono le benvenute ai concerti di Venditti (e possono testimoniarlo).
Ecco, la vicenda di Venditti ha spalancato un vaso di Pandora che ha portato alla luce un problema più grave e radicato delle sue offese sul palcoscenico: c’è una profonda ignoranza sul tema della disabilità e riguarda molte più persone di quanto si pensi. La disabilità non è una scelta, l’ignoranza sì: si può scegliere di diventare migliori.