La Lega vuole punire chi usa il femminile negli atti pubblici: questo è un «problema vero»

La Lega ha fatto una proposta di legge per punire, con multe fino a cinquemila euro, chiunque utilizzi il femminile negli atti pubblici.

La Lega ha fatto una proposta di legge per vietare l’utilizzo del femminile negli atti. Allo scopo di «preservare l’integrità della lingua italiana», insomma, la Lega vuole punire, con multe fino a cinquemila euro, chiunque utilizzi termini come “sindaca”, “rettrice” o “assessora”.

Ora, potremmo chiudere la questione subito, dicendo che questa proposta di legge del partito di Salvini non sia altro che un modo per distrarci dai cosiddetti, abusati, inflazionati “problemi veri”. Io, invece, credo che questa “priorità” della Lega sia un problema più che vero, perché trova le proprie radici nello sterminato terreno del patriarcato. Terreno, ad oggi, ancora molto fertile.

Lega e patriarcato, un binomio inscindibile

Lo dico subito: no, non è solo una questione di parole. Non è vero che non cambia niente se si utilizza una desinenza anziché un’altra. E, no, non è vero nemmeno che si tratta di politicamente corretto.

Andiamo con ordine. Se, negli anni, non si è mai fatta alcuna fatica a dire “cameriera”, “maestra”, “infermiera”, mentre ancora oggi risulta difficile dire “avvocata”, “sindaca” o “presidentessa” non è, ovviamente, un caso: tutti i mestieri considerati unicamente maschili e da cui, per anni, le donne sono state escluse, ancora adesso si fa difficoltà a declinarli al femminile.

Le parole non sono solo parole, perché sono legate – inevitabilmente – a fattori sociali, culturali, ambientali, dunque la proposta della Lega contribuisce a tenere le donne ai margini della società, lontane da ruoli apicali. Contribuiscono a considerare i ruoli di potere appannaggio degli uomini.

Le obiezioni di chi è contrario all’utilizzo del femminile sono più o meno note e la più utilizzata è, nel contempo, anche quella più pericolosa: «Si è sempre fatto così». Posto che “sempre” sia un’unità di misura piuttosto ambigua e vaga e che non dica molto, va sottolineato come questo attaccamento alla tradizione sia legato a ciò di cui abbiamo esperienza.

Mi spiego meglio: qualcuno sostiene «Una volta non si diceva sindaca» ed è vero, prima non si diceva “sindaca”, semplicemente perché non c’erano sindache donne. Quindi, nel momento in cui le donne hanno iniziato a ricoprire ruoli che, per una questione esclusivamente culturale, prima non avevano mai avuto, ecco che certe parole, da sempre esistenti ma non in uso, hanno cominciato a essere necessarie.

Poi c’è chi dice che «certe parole non si possono sentire», non comprendendo che, se certi termini appaiono desueti o cacofonici, è per il più semplice dei motivi: non siamo abituati a sentirli. E non siamo abituati a sentirli perché le donne sono sempre state escluse da certe mansioni.

In definitiva…

Dovremmo fare molta attenzione a dire «Ci sono problemi più gravi», quando ci troviamo di fronte a una proposta di legge come quella della Lega, perché il benaltrismo non serve assolutamente a nulla, se non a svilire ogni battaglia in nome di battaglie più grandi, che però non combattiamo perché «tanto non cambia niente»: il cambiamento si fa (anche) partendo dalle parole, che definiscono chi siamo, il ruolo che abbiamo e, quindi, ci determinano.

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