Stefania Andreoli, psicologa e psicoterapeuta, di recente ha sollevato un tema importante e delicato: il rapporto tra genitori e figli.
Provo a fare due riflessioni diverse che, però, hanno la stessa matrice: Stefania Andreoli. Nello specifico, alcune osservazioni fatte da Stefania Andreoli. Per i pochi che non sanno chi sia, si tratta di una psicologa e psicoterapeuta, che lavora con gli adolescenti, le famiglie e la scuola, occupandosi di prevenzione, formazione, orientamento e clinica.
I fatti: negli ultimi giorni, Andreoli ha sollevato un tema delicato e (a mio avviso inaspettatamente) controverso, quello dell’intromissione dei genitori nella vita dei figli, specie nelle fasi in cui è necessario che i figli rivendichino la propria indipendenza e siano capaci di stabilire una distanza (fisica ed emotiva) dai genitori. Nel particolare, si parlava del perché sia sbagliato che i genitori partecipino agli orali degli esami di Stato dei figli (spesso imponendo loro la propria presenza).
Nella rubrica Il pensiero del mercoledì, che Andreoli tiene su Instagram, dunque, il tema ha suscitato non poche reazioni (alcune contrarie, altre in linea con quanto affermato dalla psicologa). Quello che mi ha molto colpito, tuttavia, è quanto avvenuto su X (ex Twitter), dove il dibattito si è fatto più caldo, disorganizzato, a tratti aggressivo. Da qui, le due riflessioni che sto per fare.
Stefania Andreoli: questione di analfabetismo funzionale
La prima: i social svelano un problema non più trascurabile; anzi, ne sono – in parte – la causa. Quale? Questo: non siamo più capaci di comprendere, ma soprattutto di distinguere un’opinione da un’affermazione fatta con cognizione, competenza, esperienza (non esperienza personale, che rientra nella moltitudine confusa delle opinioni). In altre parole, un pensiero espresso sui social diventa automaticamente confutabile, contestabile, solo perché non si è d’accordo o perché, nella la propria esperienza, non si ha prova di quanto affermato dall’altro.
Così, Stefania Andreoli che parla di genitorialità, di dinamiche disfunzionali nel rapporto tra figli e genitori, non è più una psicologa e psicoterapeuta, ma una utente con cui essere d’accordo o in disaccordo. Ora, è evidente che nessuno sia immune all’errore, ma non è questo il punto. Il punto è che la sacrosanta libertà di esprimerci ci porta a credere che la nostra opinione sia al pari di una competenza e che la nostra esperienza personale sia metro di misura per un tema che non possiamo misurare noi. È qui che fa le radici l’analfabetismo funzionale: pensare di poter valutare il mondo in base al nostro, di mondo. «Non sono d’accordo perché a me è successo questo o quest’altro» non dice assolutamente nulla del tema in questione, ma – certamente – rivela i nostri limiti.
Perché è così difficile parlare di genitorialità?
E veniamo alla seconda riflessione: il tema legato alla genitorialità incontra (ancora) molta resistenza, una chiusura fitta e tanta, insopportabile retorica («Non me ne importa nulla, io mi godo i miei genitori finché li ho» oppure «Non c’è niente di meglio che gioire dei risultati dei figli, che male c’è ad accompagnarli in ogni tappa?»). Riallacciandomi alla prima riflessione, in questo caso – al rifiuto verso il tema proposto – si aggiunge anche una percezione comune, quella di essere attaccati, giudicati. Si fa molta fatica a cogliere l’occasione di riflettere, di mettersi in discussione, mentre è più facile sentirsi vittime e difendere strenuamente la propria posizione.
Ma perché, mi chiedo, è così complicato parlare di un tema vecchio come il mondo, senza incontrare l’ostilità di padri, madri e, spesso, figlie e figli? Io non ho le competenze per dirlo, ma posso provare a intuirlo: siamo una generazione (mi ci metto in mezzo) amata male, in modo disordinato, scomposto. L’affetto che riceviamo viene da genitori che ci amano prima di ogni cosa, pure prima di sé (uso non a caso il vero “amare”), l’affetto che diamo viene da figli che dipendono da un amore che credono di dover corrispondere, ripagare, riparare (uso non a caso il termine “amore”).
Genitori e figli sono, siamo, dipendenti gli uni dagli altri perché non abbiamo mai allenato la nostra unicità, la nostra esistenza singola, viviamo per compensarci, per alimentarci, credendo sia un bene il fatto di restare sottilmente legati da un bisogno: il bisogno di proteggere, il bisogno di essere protetti; il bisogno di vivere per, il bisogno di vivere attraverso; la paura di non aver nulla per cui vivere, se non noi; la paura di non saper vivere da soli. E alla fine c’è un punto in cui genitori e figli s’incontrano. Ma, evidentemente, non è il punto giusto.
Non voglio e non posso aggiungere altro, ma posso dire con assoluta certezza che il professionismo non è un’opinione e un’opinione che non sa mettersi in discussione è terra arida, secca. Propongo di (ri)partire da queste due certezze.