Le parole di Papa Francesco sulla “frociaggine” nei seminari non fanno ridere affatto

Papa Francesco: non è vero che c'è troppa "frociaggine", come volgarmente la chiama il Pontefice. C'è, semmai, troppa omofobia.

Le parole di Papa Francesco sulla “frociaggine” nei seminari hanno scatenato l’ilarità dei social, ma – a ben vedere – c’è poco da ridere e tanto da riflettere. Lunedì, durante l’assemblea generale della Cei con oltre duecento vescovi italiani, il Pontefice ha parlato dell’ammissione degli omosessuali nei seminari.

«La Chiesa», affermava nel 2016, «pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay». Più di recente, la Cei ha approvato un emendamento che si limita a distinguere tra atti e tendenze omosessuali. Quindi, con la sua esternazione, il Pontefice ha voluto sottolineare che – affinché l’omosessuale che entra in seminario non conduca «una doppia vita» – sono necessari dei paletti più restringenti. L’obbligo del celibato, ovviamente, vale per tutti i seminaristi, omosessuali ed eterosessuali, ma per i gay servono regole ferme.

Papa Francesco: non c’è troppa “frociaggine”, ma troppa omofobia

Ora, che ci sia un evidente problema di omofobia, mi pare persino superfluo sottolinearlo. Il punto, tuttavia, non è (solo) la parola in sé (“frociaggine”) che è offensiva e discriminante (e non “colorita” o “tranchant”, come mi è capitato di leggere), ma il fatto che si pensi che solo un omosessuale, in quanto tale, possa condurre una doppia vita.

Il fatto che il perno della questione sia chi pratica l’omosessualità, e non la sessualità in generale, dimostra che ci sia un problema di omofobia. Il fatto che si parli di non ammettere chi ha «tendenze omosessuali profondamente radicate», come se si possa essere cautamente gay, un po’ gay, leggermente gay, e – soprattutto – come se si possa scegliere, misurare e addirittura controllare il grado di omosessualità di un gay, dimostra che c’è un forte problema di omofobia. Il fatto, infine, che si parli di «cultura gay», che – come la cosiddetta “teoria gender” – non esiste, dimostra che l’omofobia è più radicata di quanto si pensi.

E poi c’è un’altra questione da chiarire: in che modo si pensa di identificare l’omosessualità nei seminaristi? Al netto di facili ironie, in che modo si può comprendere quanto «profondamente radicata» sia l’omosessualità? E, soprattutto, qual è il grado di omosessualità che può essere accettato e che, quindi, non rappresenta un pericolo?

La chiesa e i pregiudizi verso gli omosessuali: quello di Papa Francesco non è uno “scivolone”

Ecco, quello viene superficialmente definito uno «scivolone» di Papa Francesco, in realtà, non fa altro che aumentare lo stigma e il pregiudizio verso la comunità LGBTQIA+. Non fa altro che raccontare un’istituzione anacronistica e ipocrita, in cui l’omosessuale viene rispettato solo e soltanto se «non ha tendenze profondamente radicate» e se non sostiene la «cultura gay».

In altre parole, la chiesa tollera i gay solo se scelgono (perché il sottinteso è che l’omosessualità sia una scelta) di temperare, nascondere, se non addirittura annullare, la propria natura. Dunque, non tollerano, men che meno rispettano i gay, ma li mortificano, li ghettizzano e li etichettano.

La domanda sorge spontanea: se viene rispettata la castità, che importa se il seminarista è etero o gay? Perché si dà per assodato che un eterosessuale non pratichi la propria eterosessualità, mentre un omosessuale sì? A che grado di omosessualità corrisponde la “frociaggine” di cui parla Papa Francesco? Queste domande non avranno mai una risposta, ma rivelano comunque qualcosa: l’istituzione della chiesa è il più grande fallimento dell’umanità, un abbaglio che Dio, se esiste, non perdonerà.

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