Selvaggia Lucarelli: e se il libro sui Ferragnez l’avesse scritto un uomo?

Selvaggia Lucarelli ha scritto un libro-inchiesta sui Ferragnez che scoperchia il vaso di Pandora (e non solo di pandoro).

Lo dico senza giri di parole: se Il Vaso di Pandoro, il libro-inchiesta su Chiara Ferragni e Fedez, l’avesse scritto un uomo, sarebbe stato considerato semplicemente un giornalista che fa il proprio lavoro. Siccome l’ha scritto una donna, e questa donna è Selvaggia Lucarelli, automaticamente è un’invidiosa, frustrata, incattivita, ossessionata.

Ora, al netto di quello che sappiamo (immagino) tutti, ovvero che per zittire una donna ci siano argomenti che mai vengono usati per gli uomini (la mancanza di sesso che incattivisce, l’invidia che acceca, il ciclo che rende una donna intrattabile), c’è da dire che Selvaggia Lucarelli è una giornalista divisiva e non gregaria. Queste caratteristiche, è evidente, appaiono disturbanti a chi vuole che una donna abbia un ruolo decorativo, non centrale, e che si occupi di aspetti marginali della società (tipo il gossip, nel caso del giornalismo).

Selvaggia Lucarelli scoperchia il vaso di Pandora (e di Pandoro)

E infatti, per svalutare il lavoro di Lucarelli, si fa leva su due elementi: la presunta invidia della giornalista e la presunta vacuità dell’argomento che tratta. In altre parole, Selvaggia Lucarelli sarebbe soltanto una donnetta invidiosa del successo e della ricchezza dei Ferragnez e dunque si occuperebbe solo di gossip, perché – il fatto che i protagonisti dell’inchiesta siano Fedez e Chiara Ferragni – sembra collocare tutto in una casella che non è quella della cronaca, ma semmai della cronaca rosa, del pettegolezzo.

A nulla vale il fatto che si tratti di un’inchiesta sociologica e politica, che analizza la nascita e la caduta di un fenomeno che ha radici profonde e lontane. A nulla vale il fatto che Selvaggia Lucarelli abbia scoperchiato il vaso di Pandora che ha portato, a distanza di un anno, a un’indagine che vede Chiara Ferragni indagata per truffa aggravata (e a una multa da un milione di euro da parte dell’antitrust). A nulla vale il fatto che si parli delle lavoratrici dell’azienda Ferragni e del trattamento a cui sono sottoposte.

Insomma, per ridimensionare il lavoro di Selvaggia Lucarelli, si è deciso di etichettarla come una donna ossessionata. Ma non vi viene in mente che, se la stampa, negli anni, avesse evitato di idolatrare i Ferragnez e ne avesse fatto – di volta in volta – un’analisi onesta, lucida e non faziosa, oggi Lucarelli, che è l’unica che ne ha sempre parlato, non apparirebbe come una donna “ossessionata”? Non pensate che l’attenzione di Lucarelli verso i Ferragnez appaia spropositata perché è stata l’unica, in questi anni, ad aver avuto il coraggio di toccare il regno dorato (e fragile) di Ferragni e Fedez? Mentre la stampa stava ben attenta a non inimicarsi i due personaggi più influenti dello showbiz italiano (e non solo), lei era la sola a raccontare il marcio dietro la superficie.

Selvaggia Lucarelli non dovrebbe trarre guadagni dal suo libro, ma perché?

Ma c’è un altro aspetto che fa riflettere e che la dice lunga, non solo su Selvaggia Lucarelli, ma anche sul mondo del giornalismo in generale. C’è, infatti, chi sostiene che Lucarelli non dovrebbe trarre alcun profitto economico da un libro che smaschera la pubblicità ingannevole di Ferragni. In altre parole, non dovrebbe guadagnare grazie al suo lavoro. È un controsenso, ma chi difende questa tesi sostiene che guadagnare da un libro che parla di beneficenza significhi sfruttare, a propria volta, la beneficenza. Insomma, in altre parole, Lucarelli non sarebbe poi così diversa da Chiara Ferragni.

Ora, a me sembra sinceramente assurdo dover commentare questi deliri, ma è bene farlo perché il lavoro del giornalista non deve e non può essere ridotto a una faida, a una guerra tra tifoserie. Andiamo con ordine: se è vero che Lucarelli non dovrebbe guadagnare da un libro che parla della beneficenza di Ferragni, perché sfrutterebbe – appunto – la beneficenza, allora non dovrebbero guadagnare nemmeno quelli e quelle che trattano il tema della guerra (qualsiasi guerra), perché – secondo questo ragionamento – lucrerebbero sul dolore della gente che vive in prima persona il dramma di un conflitto. Ha senso? Non ne ha.

Poi: quella di Selvaggia Lucarelli è un’inchiesta. Non è “un affondo”, “un attacco”, “una frecciatina”, non è un libro “contro”. Non è, in altre parole, una guerra social, non serve schierarsi, ma – semmai, se si è interessati – leggere un libro di inchiesta, che implica un lungo lavoro di raccolta delle fonti, di indagine, di scrittura. Perché, dunque, un lavoro di mesi, se non addirittura di anni, non dovrebbe essere pagato?

Il giornalismo è in agonia perché non si è più capaci di distinguere un’inchiesta da una baruffa social e anche, o soprattutto, perché il lavoro di una giornalista, per essere compreso e accolto, deve passare al vaglio della simpatia (o dell’antipatia) che proviamo nei suoi confronti. Non è così che funziona.

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