Giornalista spagnola molestata in diretta: se non c’è consenso, è sempre violenza

Quando non c'è consenso, si tratta sempre di violenza. Eppure c'è chi non sa riconoscere un atto di violenza, spesso capita alle donne stesse

Il fatto avvenuto in Spagna è pressoché uguale a quello che è successo in Italia qualche tempo fa: una giornalista, mentre stava lavorando come reporter di un programma, ha subito la violenza di un passante. L’uomo le ha toccato il sedere mentre lei stava seguendo in diretta un caso di furto in un negozio. Il presentatore della trasmissione ha sospeso immediatamente il collegamento e l’uomo è stato arrestato con l’accusa di aggressione sessuale.

In Italia, ricorderete, è avvenuto un fatto simile: Greta Beccaglia, giornalista sportiva, è stata palpata da un tifoso fuori da uno stadio. Le cose, però, allora sono andate in modo diverso: innanzitutto, il conduttore ha minimizzato quanto successo e le ha detto «non te la prendere», salvo poi affermare (come sempre accade) di essere stato frainteso.

Ma non solo: l’uomo, condannato a un anno e sei mesi (ma il giudice ha disposto la sospensione della pena per cinque anni), è stato ampiamente difeso da gran parte dell’opinione pubblica italiana, nonché da alcuni volti del nostro giornalismo. Ricorderete, infatti, che Vittorio Feltri, direttore di Libero, aveva proposto persino di fare una colletta in favore del palpeggiatore.

Sul tema della violenza c’è ancora troppa ignoranza

Tutto questo avviene perché in Italia c’è una profonda ignoranza sul tema della violenza. All’epoca dei fatti, avevo letto commenti agghiaccianti, come ad esempio «La violenza è un’altra cosa», «Non è successo niente di grave» o addirittura «Lei non doveva denunciarlo, ha rovinato un padre di famiglia», «Lei è in cerca di notorietà». Tutto questo succede perché non è ancora chiaro un concetto semplicissimo: qualsiasi cosa avvenga senza consenso è una violenza. Le mani di un uomo addosso a una donna, senza il suo sì, sono una violenza. E non c’è niente che giustifichi, minimizzi, sminuisca la gravità di un fatto del genere.

A tal proposito, mi viene da fare una riflessione, visti anche i fatti delle ultime settimane: in una società ancora diseducata a un tema tanto delicato, diventa quasi normale che un giornalista dica che «se ti ubriachi, il lupo lo trovi», ma soprattutto che tanta gente risponda «Ha ragione, la violenza va condannata, ma la vittima può evitarla».

Bisogna ripartire dalle basi e parlare (ancora) di consenso: dove non c’è, c’è violenza. Se per la stragrande maggioranza della gente una donna palpata (nel caso di Beccaglia, ci sono stati anche insulti) non ha subito una violenza, è chiaro che il problema stia nell’ignoranza, nella non consapevolezza.

Sono molte anche le donne che minimizzano la violenza subita da altre donne. Il punto è che viviamo in una società fallocentrica, maschilista, misogina: le donne sono le prime vittime di questa cultura maschilista, di conseguenza non sanno riconoscere una violenza e, spesso, quando ne sono protagoniste, non sanno nemmeno di doverla denunciare. Di poterla denunciare. Finché, di fronte a una molestia, a uno stupro o addirittura a un femminicidio, si parlerà di corresponsabilità della vittima, la vittima avrà sempre paura (e a volte persino vergogna) di denunciare.

È una catena che va spezzata, partendo – come spesso si dice ma mai si fa – dall’educazione. Una società che sa, è una società consapevole. Una società consapevole è sana. Riusciremo mai a capirlo?

Giambruno, il lupo e la vittima che è corresponsabile della violenza: le parole di Giorgia Meloni

Di recente, Giorgia Meloni, interrogata sulle parole di Andrea Giambruno e sulla ormai celebre frase del lupo che «eviti se non ti ubriachi», ha preso le difese del compagno. Com’era prevedibile, ha detto che «i più» hanno dato un’interpretazione diversa da quella reale, perché Giambruno avrebbe parlato come una madre che dice alla propria figlia «occhi aperti e testa sulle spalle». Poi ha aggiunto che le ragazze dovrebbero restare lucide per non mettersi nella condizione di farsi violentare dagli stupratori.

E quindi ci risiamo: la vittima diventa corresponsabile della violenza subita. E stavolta a dirlo non è l’ennesimo uomo che è complice, consapevolmente o inconsapevolmente, della cultura dello stupro. No, stavolta a dirlo è una donna, e non una a caso, ma la Presidente del Consiglio. E questo, ancora una volta, conferma che il problema non è il singolo stupro, non è il singolo femminicidio, non è il singolo caso di stalking, ma la cultura.

Perché le parole di Giorgia Meloni sono pericolose

Nello specifico, ribadiamolo, la cultura dello stupro, che si riferisce a una serie di comportamenti di cui siamo colpevoli: l’utilizzo di un linguaggio misogino, l’oggettivazione del corpo delle donne, la stigmatizzazione dei comportamenti sessuali delle donne e, soprattutto, la colpevolizzazione della vittima quando subisce un abuso. Questa cultura, insomma, dà alla vittima la responsabilità della violenza che ha subito.

Le parole di Giorgia Meloni sono completamente sbagliate, ma il problema non è solo la mancata condanna delle affermazioni di Giambruno. Ciò che è peggio è che, ancora una volta, i riflettori sono posti sulla vittima: nessuno parla degli stupratori, se non per propagandare una infattibile ma vantaggiosa (in termini di consensi) castrazione chimica.

Inoltre, non si parla di educazione sessuale e affettiva: gli stupri vengono raccontati come singoli casi isolati in cui c’è uno stupratore («perché gli stupratori esistono») e una ragazza che «non deve abbassare la guardia». Insomma, c’è un lupo e una donna che può «evitare di incorrere in determinate problematiche».

Tutto questo non è solo sbagliato, ma soprattutto pericoloso: nel momento in cui si racconta che la responsabilità dello stupro è della donna violentata, la vittima avrà timore di denunciare per paura di essere in difetto, di essere lei stessa parte del problema. Penserà di non meritare giustizia perché, in fondo, poteva evitare di incontrare il lupo.

Cos’è la cultura dello stupro e perché è importante parlarne dopo lo stupro di Palermo

L’espressione “cultura dello stupro” si riferisce a una “cultura” nella quale la violenza di genere è molto diffusa, minimizzata e normalizzata. Ma c’è di più: non solo la violenza in sé, ma anche gli atteggiamenti e le pratiche che la giustificano o incoraggiano fanno parte di questa cultura.

Nello specifico, come dicevamo prima, fa riferimento a una serie di comportamenti di cui siamo colpevoli (spesso inconsciamente perché assuefatti da una società maschilista): l’utilizzo di un linguaggio misogino, l’oggettivazione del corpo delle donne, la stigmatizzazione dei comportamenti sessuali delle donne e, soprattutto, la colpevolizzazione della vittima quando subisce un abuso. Questa cultura, insomma, dà alla vittima la responsabilità della violenza che ha subito.

In altre parole, quando diciamo «Se l’è cercata», «Com’era vestita?», «Era ubriaca», «A quell’ora che ci faceva in giro?», «Perché non ha denunciato subito?» siamo complici della cultura dello stupro.

Non ha senso parlare di castrazione chimica: ecco perché

Per tale motivo, è totalmente inutile, fuorviante, semplicistico parlare di castrazione chimica per i sette stupratori di Palermo o per qualsiasi altro stupratore. A farlo, com’è ben noto, è spesso Matteo Salvini, uno dei ministri dell’attuale governo in carica. Il punto è che si tratta della solita, conveniente, efficace propaganda della castrazione, di fatto inapplicabile in termini concreti. Utile per ottenere consensi, like, applausi scroscianti, perché – ahinoi – la gente apprezza il fatto che un rappresentante delle istituzioni parli la propria stessa lingua, quella della rabbia, del livore, della vendetta fai da te. Ma, di fatto, è fumo negli occhi, niente di più.

Non solo è inapplicabile, ma non risolve assolutamente niente, perché punisce sette stupratori, ma non smantella la cultura dello stupro: finché non sarà chiaro che uno stupro non ha nulla a che vedere con il sesso, ma con una cultura patriarcale e sessista, che vede la donna come un oggetto del maschio, il problema non si risolverà. C’è un’intera società da rieducare.

Anche per tale motivo, è sbagliato, oltre che deviante, chiamare gli stupratori «bestie», «animali», «mostri», perché li eleva (o li abbassa, dipende dai punti di vista) a qualcosa di intangibile, distante, estraneo alla realtà: da una parte ci siamo noi, quelli che certe cose non le fanno e non le farebbero mai, dall’altra loro, i «mostri», quelli da cui prendiamo le distanze con tutte le nostre forze.

Ma la verità è che per favorire la cultura dello stupro non serve essere stupratori. Ognuno di noi – purtroppo – almeno una volta nella vita – se ne è fatto complice. Per tale motivo, c’è un’intera da società da cambiare: per evitare le violenze, non serve castrare chi, una violenza, l’ha già fatta. Serve, piuttosto, educare tutti e tutte sin dalla scuola primaria. Serve formare le coscienze. È necessario ricominciare dalle basi.

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