Michela Murgia è morta, la sua immensa eredità «Imparare a morire da vivi»

Michela Murgia è morta a causa un tumore che aveva causato diverse metastasi che erano arrivate al cervello: una perdita incolmabile

Michela Murgia è morta all’età di 51 anni, la scrittrice e attivista si è spenta giovedì 10 agosto, lasciando una ricca eredità alle sue spalle: la capacità di morire mentre si è realmente vivi. Lo ha dimostrato nel corso del suo – fin troppo breve – percorso in questa vita e ancora di più da quando ha condiviso il suo ultimo tragitto in ”compagnia” della malattia.

Sin dal primo momento in cui ha rivelato di essere malata, Michela Murgia ha sorpreso chiunque con una semplice affermazione: Perché non a me? Con questa semplice quanto complicatissima verità, la scrittrice ha regalato a tutti una narrazione della malattia onesta, lucida e sorprendente.

«Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono»

Michela Murgia aveva rivelato di essere malata di tumore in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera, attraverso la quale aveva svelato il quadro dei suoi ultimi anni.

La sua decisione di affrontare questa sfida non seguiva i protocolli tradizionali, aveva optato invece per “un trattamento di immunoterapia basato su biofarmaci”. Questo approccio non mirava a combattere direttamente la malattia, bensì a stimolare la risposta del suo sistema immunitario. L’obiettivo era guadagnare prezioso tempo, forse molti mesi, anche se ormai era troppo tardi per sradicare il male. Così aveva spiegato con lucidità la sua scelta. Questo nuovo ostacolo si era presentato dopo che Michela Murgia aveva già superato un primo tumore diagnosticato nel 2014.

Nel suo più recente libro, dal titolo “Tre ciotole” (pubblicato da Mondadori), il primo racconto rappresentava una testimonianza intima e profonda. La protagonista femminile di questa storia si trovava nella stanza di uno specialista, dove le veniva comunicata la diagnosi di un tumore. Emergeva immediatamente la connessione autobiografica. La narratrice aveva preso la decisione di non intraprendere un intervento chirurgico, dato che le prospettive di guarigione erano ormai ridotte. Le metastasi avevano già invaso il suo corpo, avvolgendo le ossa e persino il cervello. La sua riflessione era eloquente:

«Il cancro non era una condizione che mi affliggeva; era piuttosto parte di me stessa. Il medico che mi seguiva, una mente brillante, me lo aveva spiegato con chiarezza. Gli esseri unicellulari non sperimentano neoplasie; tuttavia, essi non creano opere letterarie, non imparano lingue straniere, non studiano il coreano. Il cancro era un compagno della mia complessità, non un avversario da annientare. Non potevo e non volevo dichiarare guerra al mio corpo, alla mia essenza. Il tumore rappresentava uno dei costi che potevo pagare per essere un individuo unico. Mai l’avrei etichettato come “maledetto” o “alieno”.»

La morte di Michela Murgia ci consegna un’assenza difficile da riempire, ci sottrae una figura difficile da sostituire. La sua vita, però, ci ha consegnato l’esempio più importante. Di come si vive, di come si muore. E di come si resta in vita anche dopo la morte.

Grazie Michela Murgia, per il coraggio di aver vissuto davvero.

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