Quello che ha detto Paolo Meneguzzi su Disco Paradise e J-Ax, ma più in generale sullo stato in cui versa il pop, è tristemente vero.
Quello che ha detto Paolo Meneguzzi a proposito del pop è sacrosanto. Se si fa resistenza nel riconoscergli il merito di aver portato alla luce un problema, ovvero l’impoverimento della scena musicale pop italiana, è – immagino – per un motivo. Il pop, nonostante ci abbia regalato artisti e brani necessari, che hanno fatto la storia della musica, del costume e della società in tutto il mondo, è considerato il fanalino di coda di tutti i generi. È ritenuto blando, leggero, superficiale, decorativo, quindi – conseguentemente – si pensa che possa essere trattato in modo approssimativo (e che se ne debba parlare in modo approssimativo).
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Meneguzzi, dicevo, ha fatto un discorso lucido, ben più articolato e interessante di come è stato riportato. In altre parole, non ha «attaccato», «lanciato una frecciatina», «insultato» J-Ax e Fedez, ma ha parlato della «Disco paradise di turno» che è, di fatto, una «marchetta». Ha detto una verità sacrosanta, confermata (anche se immagino che l’intento fosse il contrario) dalle parole astiose di J-Ax, che ha (lui sì) insultato Meneguzzi, definendolo tra le altre cose «la versione Wish di Tiziano Ferro» e «fallito».
J-Ax conferma (senza volerlo) le parole di Paolo Meneguzzi
Ora, se un artista denuncia un pop che si limita a compiacere il gusto del pubblico e rinuncia a essere «visionario, evoluto, curato nei dettagli» e tu – in tutta risposta – lo offendi, riveli te stesso. Ma J-Ax ha fatto anche di più: ha detto che Meneguzzi avrebbe accusato il pubblico di oggi di non capire nulla di musica, cosa assolutamente non vera. Questa interpretazione delle parole di Meneguzzi, che – ripeto – da lui non sono mai state pronunciate – la dice lunga su J-Ax. Ma poi ha fatto di peggio, perché ha detto «meglio il binge-straming dei dodicenni di oggi che i produttori di una volta che decidevano tutto».
Insomma, se Meneguzzi si è limitato a parlare di un pop scadente, J-Ax ha ammesso di restare a galla grazie a un pubblico «di dodicenni» che fa «binge-straming», vale a dire abbuffate incontrollate e disattente di musica. Ha ammesso di rivolgersi a un pubblico che non è interessato a un pop «visionario, evoluto, curato nei dettagli», ma a un prodotto immediato, furbo, da fast-food: entri, consumi e te ne vai, senza nemmeno sapere cosa tu abbia consumato. Senza, e questo è il vero problema, sapere se ti piaccia davvero.
In altre parole, da una parte c’è Meneguzzi, che ha messo in luce un problema, dall’altro J-Ax, che ha confermato che quel problema esiste. Lui, Fedez e tanti altri artisti se ne fanno complici perché è l’unico modo per (r)esistere, per farsi ascoltare, per conservare un posto nel brulicante mondo della musica pop odierna.
Concludo facendo un’osservazione: trovo davvero deprimente che un artista di cinquant’anni, con una carriera ultratrentennale alle spalle, non sappia discernere le parole di un collega da quello che, evidentemente, pensa lui stesso della propria musica e del pubblico che oggi lo segue. Probabilmente, mi permetto di pensare che sia lui per primo a non essere soddisfatto del proprio percorso. Del resto, si è sempre posto in contrasto rispetto al sistema, ma poi ha ceduto a svariati talent show, a Sanremo, a collaborazioni con artisti sulla cresta dell’onda e, in ultimo, a tormentoni di scarso valore artistico.
Dobbiamo ringraziare Paolo Meneguzzi: denunciando lo stato attuale del pop, ha permesso a J-Ax di rivelare se stesso. E chissà che non sia un buon modo per fare mea culpa, rinunciare alle « marchette» e ricominciare a fare musica. Quella vera.