Ambra Angiolini al concertone del Primo Maggio: lo «scambio» che non aiuta le donne, ma le mortifica

Ambra Angiolini, al concerto del Primo Maggio, di cui è stata conduttrice, ha parlato della disparità tra uomini e donne nel mondo del lavoro.

Ambra Angiolini, durante il concertone del Primo Maggio, ha fatto un discorso che considero non solo sbagliato, ma soprattutto qualunquista, populista, superficiale. E, dal momento che a farlo è stata una donna, lo ritengo anche pericoloso. Sì, perché certe cose, se dette persino da chi si erge a paladino della causa, danno manforte a chi, la causa in questione, non la sposa affatto.

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Avete presente quando un omosessuale dice «Sono gay ma penso che i gay non debbano avere figli perché bisogna pensare al bene dei bambini» e molti si sentono giustificati a difendere la propria posizione oscurantista perché «se lo dice persino lui che è gay, allora ho ragione a crederlo»? Ecco, è un po’ quello che è successo con il discorso di Ambra.

Ambra Angiolini e lo «scambio» che umilia le donne

Ma andiamo per gradi. Angiolini ha detto «Avvocata, ingegnera, architetta. Tutte queste vocali in fondo alle parole ci fanno perdere di vista i fatti (…) Che ce ne facciamo delle parole? Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali ma ridateci il 20 per cento di retribuzione». Insomma, Ambra ha detto che bisogna pensare alla «ciccia» e non alle parole.

Con questa sua affermazione, a mio avviso infelice e mediocre, Ambra (com’era prevedibile) ha ottenuto il plauso di quelli che «ha ragione, basta con il politicamente corretto», «le parole non sono importanti» e – ovviamente – anche di quelli che «se lo dice lei che è donna, allora faccio bene a crederlo».

Ma il punto è proprio questo: il fatto che lo dica lei, che è donna, evidenzia il problema. Perché una donna che propone uno «scambio», che si mette in una condizione di subordinazione, ammette un’inferiorità rispetto all’uomo. Insomma, gli uomini non hanno bisogno di fare scambi, perché hanno tutto per diritto. E allora perché una donna, allo stesso modo, non può avere tutto? Qual è il demerito per cui non dovrebbe reclamare il diritto di essere rappresentata dalle parole e, nel contempo, avere pari opportunità nel mondo del lavoro?

E veniamo alle parole e alla loro importanza. Partiamo da una verità incontestabile: le parole da sole non servono a niente, è vero. Ma le parole non sono un accessorio, una cornice: ci definiscono e sono collegate a fattori sociali, culturali, ambientali. Se pensiamo che molti termini hanno solo la forma maschile perché certi lavori erano considerati esclusivamente appannaggio degli uomini, ci fa capire come anche la nostra storia passi attraverso le parole. Per questo è importante cambiarle: il nostro vocabolario racconta chi siamo, chi possiamo e vogliamo essere, come siamo diventati, come si è evoluta la nostra società.

E non è vero che le vocali «ci fanno perdere di vista i fatti», ci si può occupare del nostro vocabolario e nel contempo pensare ai diritti di ogni donna: nella trappola del benaltrismo cade chi non sa difendere la propria posizione. E, ripeto, se a non saperlo fare è una donna, il retaggio culturale è ben più stratificato e invalidante di quanto si pensi. Il maschilismo interiorizzato, che appartiene indistintamente a uomini e donne, è ben più radicato di quanto si creda.

Le parole sono importanti, perché dicono chi siamo, chi possiamo essere, cosa sappiamo essere. E sono un diritto. Di tutti. Non sono merce di scambio. Prima lo capiremo, prima otterremo una società paritaria, giusta. E a quel punto ne godranno tutte, pure le donne che accettano di rinunciare a un diritto per averne un altro.

Donne e maschilismo interiorizzato

Donne maschiliste. Esistono, sono tra noi e non sono colpevoli, ma vittime. Più delle altre donne. Perché – oltre al peso di una società retrograda, machista e patriarcale – portano anche quello di vivere la propria esistenza come un destino segnato, immutabile. Giusto. Sì, come se fosse una concessione, se non addirittura un privilegio: è possibile esistere, ma è bene farlo entro certi limiti, entro certi confini. Al di là di ciò che è considerato normale e opportuno, tutto diventa pretesa, capriccio.

In altre parole, ciò che per un uomo è assolutamente normale, come ad esempio essere libero di frequentare più donne, scegliere di non avere figli, fare carriera o curare il proprio aspetto senza risultare per questo meno credibile, non lo è per le donne. Insomma, non serve che io ricordi quanto (ancora) sia difficile essere donne in una società come la nostra, viste le evidenti disparità con gli uomini in ambito lavorativo, sociale e privato.

La donna è una costola dell’uomo: è prima di tutto mamma e, se sceglie di non esserlo, è considerata difettosa; è pagata meno rispetto ai maschi, si è dovuta inventare le quote rosa per essere rappresentata in egual misura; se cura il proprio aspetto rischia di non essere presa sul serio, se non è di bell’aspetto viene mortificata; per non parlare di abusi, violenze domestiche, molestie sul lavoro, cat calling, tutte colpe degli uomini, ma per cui le donne finiscono sempre per essere messe sotto accusa: «Com’era vestita?», «Uno schiaffo non è violenza», «Si sa che la carne è debole», «Un fischio che vuoi che sia?». Eppure, in questo scenario, esistono – come dicevo – donne contro le donne.

Anzi, rettifico: donne contro l’emancipazione delle donne. Ed è facile prendersela con loro. È facile dire «Le peggiori nemiche delle donne sono le donne stesse». È facile e semplicistico. La verità, però, è sotto la superficie e va ricercata in una cultura maschilista, misogina e patriarcale così radicata che persino chi ne è vittima non sa liberarsene. In alcune donne, sembra esistere una sorta di Sindrome di Stoccolma: sono vittime dei loro carnefici perché solo così possono essere socialmente accettate (e accettabili). E, di fatto, lottano contro le donne che si emancipano perché, con il loro comportamento, non rispettano i canoni (estetici, sociali, culturali) imposti dalla società maschilista.

Per tale motivo, quindi, molte donne combattono i movimenti femministi che, a differenza del maschilismo, basato sulla prevaricazione dell’uomo nei confronti della donna, chiedono soltanto la parità tra i sessi. Tutto ciò deriva dall’accettazione passiva, spesso inconsapevole, dei pregiudizi tipici della cultura in cui sono nate e cresciute. È come se le donne maschiliste avessero assorbito la cultura dell’ambiente socio-culturale in cui si sono formate.

Ecco, c’è un’intera società da cambiare, ma – perché si evolva – non dobbiamo combattere le donne che combattono le donne, ma la cultura che l’ha permesso e lo permette ancora.

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