Abbiamo intervistato per voi la talentuosa Ilaria Porceddu, che ci ha raccontato il suo ritorno alle origini: ecco le parole della cantautrice
Ilaria Porceddu è tornata. A tre anni di distanza da Di questo parlo io, la cantautrice sarda ha pubblicato un nuovo singolo e si appresta a realizzare il suo quarto disco di inediti. Ecco cosa mi ha raccontato durante la nostra chiacchierata.
Le parole di Ilaria Porceddu
Ilaria, Sa Coia, il tuo nuovo brano, segna un ritorno alle tue radici e arriva in un momento non casuale: hai lasciato Roma per far rientro nella tua Sardegna.
Sto vivendo un momento bellissimo. Ormai è passato quasi un anno dal mio rientro e ci credi che non mi sono pentita neanche per un momento di aver fatto questa scelta? Finalmente ho ricominciato a respirare, quindi direi che il mio obiettivo l’ho raggiunto.
Il brano, interamente cantato in lingua sarda, racconta le varie fasi di un matrimonio, dall’inizio sino al quarantesimo anniversario. Com’è nato Sa Coia?
È nato per gioco. Sono stata invitata da Emanuele Contis al MedInArt Festival di Samassi, un paesino del medio campidano in Sardegna, due anni fa. Mi disse che l’intento di quell’evento era l’interazione fra artisti e comunità. Per questo mi mandò tantissime poesie tra le quali avrei dovuto sceglierne una da far diventare canzone. Scelsi Sa Coia. Senza volerlo è venuto fuori un pezzo di cuore che ho cominciato a inserire nei miei live. Da qui, dopo una registrazione fatta durante il concerto con cui ho festeggiato il mio rientro a Cagliari a Palazzo Siotto, ho deciso di trovare il modo di condividerla con più persone possibili grazie anche alla Produzione Fondazione Siotto e il supporto di Emanuele Contis.
In verità, il legame con la tua terra è evidente in ognuna delle tue produzioni, basti pensare che a Sanremo, nel 2013, hai cantato In equilibrio, in cui alcuni versi sono proprio in sardo. Che ricordo hai di quell’esperienza?
Bellissimo. Soprattutto per il fatto che, non avendo mai avuto santi in paradiso, il ringraziamento più grande ho dovuto farlo esclusivamente alla mia squadra di lavoro e un po’ anche a me stessa. E poi Sanremo è Sanremo, la mancanza di fiato su quel palco credo possa capirla chiunque.
Restiamo nel passato: nel 2008, ad appena ventun anni, hai partecipato alla prima edizione di X-Factor. Che diresti, oggi, alla Ilaria di allora, se potessi parlarle?
Let it Be. Oppure «Dai, Ila, smolla un po’». Ero molto rigida. La convinzione di dover dimostrare di essere sempre all’altezza, a vent’anni, è un bel macigno. Pensa, sono molto più yeah yeah adesso che ho trentadue rispetto a quando ne avevo venti.
La musica è notevolmente cambiata in quest’ultimo decennio: quando hai partecipato a X-Factor, i talent erano agli albori e i ragazzi provenienti dalla tv erano visti con un certo sospetto. Oggi, a distanza di dieci anni, i dischi si vendono sempre meno e Spotify sembra la sola salvezza per chi fa musica. Dici che la mia visione è troppo pessimistica?
No, non è per niente pessimistica. È realista. Io credo che in questo momento si debbano trovare delle alternative reali alla vendita dei dischi per continuare a fare questo mestiere. In primis, suonare live. Dopodiché, da una crisi deriva sempre una rinascita (o almeno così dicono), quindi mi piacerebbe pensare che questo difficile momento possa essere quello giusto per fare veramente ciò che si è piuttosto che ciò che ci dicono di dover fare. Tanto, vendere non vendi lo stesso, a questo punto viva la libertà di rischiarsela con le proprie verità.
In quest’ultimi periodo, peraltro, si è molto parlato dei lavoratori dello spettacolo, in particolare dei musicisti e di tutte le maestranze che lavorano dietro le quinte: perché, secondo te, si fa ancora tanta fatica a percepire l’arte come un mestiere?
Perché l’arte riguarda l’anima. E se consideriamo che andare in terapia da uno psicologo è considerato ancora un qualcosa “in più”, un qualcosa che riguarda un essere viziato o un essere fragile, e non un’esigenza fisica e mentale per vivere meglio e di conseguenza essere un apporto più produttivo all’interno di una società, figuriamoci come può essere presa per necessaria una roba astratta che cura l’anima come la musica. Come chi lavora davanti a uno sportello, ha uno stipendio fisso e viene riconosciuto dallo Stato, anche noi utilizziamo le ore della giornata per produrre (senza considerare le ore che abbiamo passato in studio per arrivare poi, appunto, a produrre). Si certo, l’abbiamo scelta, questa vita. Abbiamo scelto di non avere stipendio fisso e non avere certezze. Ma accarezziamo l’anima, o almeno ci proviamo. E poi lo abbiamo fatto proprio per far «tanto divertire e appassionare», che non è poco (ride, ndr).
Adesso ti dir delle parole, vorrei che fossero uno spunto per raccontarmi ciò che ti viene in mente. Iniziamo dalla prima: Roma.
Madre incasinata. Roma è come quelle madri che vorrebbero dar tutto ai propri figli e poi «non sanno a chi lasciare i pezzi». Quindi la ami, le riconosci l’affetto ma poi te la devi cavare da solo.
Il secondo, in verità, è un nome: Lucio Dalla.
Quando penso a lui, immagino una rondine che vola libera, osserva il mondo e ne raccoglie l’essenza per poi raccontarla con piroette in aria, come quelle della sua voce e delle sue parole. Leggere e piene.
Terzo e ultimo spunto: compromesso.
Ho detto molti no nella mia vita, ma qualche compromesso da giovanissima l’ho anche accettato, per poi scoprire che sarebbe stato meglio non farlo. Tipo cantare una canzone che devi assolutamente cantare perché è perfetta e poi non è perfetta manco per niente. Ecco. Se devo avere un riconoscimento, voglio che sia per qualcosa che mi appartiene. Se devo fallire, voglio fallire con qualcosa che mi appartiene. Per quanto riguarda altri tipi di compromessi, posso solo dire che mi guardo ogni giorno allo specchio orgogliosa e fiera (con qualche antipatia e alcune male parole a cui do tranquillamente le spalle).
Il tuo pubblico si chiede quando arriverà il tuo quarto disco.
Ti posso solo dire che questa estate la passerà un po’ in spiaggia e un po’ in studio…
Ti propongo alcune domande a bruciapelo: se fossi una canzone, quale saresti?
Il Posto più freddo de I Cani.
Se fossi un libro?
Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estés.
Se fossi un film?
La Science des rêves /L’arte del sogno di Michel Gondry.
Se ti chiedessi di descriverti con un verso di una tua canzone, quale mi diresti?
«Non mi chiamo bimba né tantomeno figa, non mi chiamo amore perché l’hai deciso tu», ma è una canzone che voi ancora non conoscete!
Concludiamo le nostre interviste sempre con questa domanda: noi ci chiamiamo DonnaPOP e per noi la parola POP ha un’accezione positiva, rappresenta qualcosa di bello, di accattivante, di tendenza. Cosa è per te POP?
Pop è tutto ciò che ci fa sentire parte di una comunità di scambio senza pregiudizio. Pop è popolare e io ci sguazzo dentro al popolo.
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