Ricordate la Zingara di Raiuno? Cloris Brosca, che per anni ne ha vestito i panni, si racconta a DonnaPOP in un'intensa intervista.
A metà degli anni Novanta, Cloris Brosca vestiva i panni di uno dei personaggi più amati e mai dimenticati della tv italiana: la Zingara. Oggi, a oltre vent’anni di distanza, abbiamo deciso di raccontare la storia di un’artista poliedrica, dagli esordi al cinema, passando per la tv, fino ad arrivare al suo più grande amore, il teatro.
Le parole di Cloris Brosca
Cloris, con questa intervista vogliamo ripercorrere la sua incredibile carriera tra tv, cinema, ma soprattutto teatro. Le va di toglierci subito il dente e parlare della Zingara, il personaggio che le ha dato il successo a metà anni Novanta?
Ho tanti ricordi eterogenei. Il provino. I costumi. La contentezza di mia madre di vedermi in televisione. Le luci degli studi televisivi. Le scenografie. I compagni di lavoro: tecnici, truccatrici, parrucchiere/i con i quali, anche se ci vediamo poco, sono rimasta in rapporti d’affetto e d’amicizia. I bagni di folla durante la Zingara itinerante… Qualche pazzia – più d’una – che mi sono concessa grazie al maggior agio economico (come un cavallo di legno massiccio proveniente dal negozio di arredamento etnico del mio amico Arturo). La casa che ho potuto acquistare… Le persone che mi chiedevano per strada numeri da giocare al Lotto…. Qualcuno che ancora oggi mi riconosce ricollegandomi al personaggio della Zingara… Che altro posso dire? Che il mio “gioco” era all’interno del contenitore preserale Luna Park, in onda cinque giorni alla settimana dal lunedì al venerdì; che inizialmente i conduttori – cinque, uno per ogni giorno della settimana – erano Venier, Carlucci, Lambertucci, Frizzi e Baudo; che io sarei dovuta essere presente dal lunedì al giovedì; che invece Baudo volle il mio gioco in trasmissione anche nel suo giorno, il venerdì; che Baudo cominciò a “stuzzicarmi”, dando vita a “siparietti” che dettero importanza e valorizzarono il mio personaggio. Negli anni poi si aggiunsero e si alternarono anche altri conduttori: Bonolis, Magalli, Anna Falchi e Carlo Conti. Posso aggiungere che il gioco ebbe così tanto successo che fu deciso di farne una striscia serale che andò in onda prima da studio e poi dalle piazze dei più bei luoghi d’Italia, e che la Zingara divenne anche un gioco da tavolo.
Ricorda com’è nato tutto?
Ricordo il provino: eravamo una trentina… ma forse anche meno: una ventina di attrici, tutte truccatissime, con rossetti scarlatti e occhi bistrati, bardate di orecchini e bigiotteria vistosa: insomma ognuna di noi cercava di fare del suo meglio per avvicinarsi all’immagine fascinosa e accattivante di una zingara da favola.
Come si spiega il successo della Zingara? Del resto, era un personaggio quasi perfido, metteva in difficoltà i concorrenti, sembrava godere della loro sconfitta. Eppure era amatissima da grandi e piccoli e ancora oggi, a tanti anni di distanza, nessuno l’ha dimenticata.
Il successo – ci ho pensato più volte – secondo me è dipeso dalla coincidenza di più elementi azzeccati: un gioco congegnato in modo sicuramente avvincente; l’utilizzo dei tarocchi, icone di per sé affascinanti; il costume e l’ambientazione scenica, anche quelli accattivanti e suggestivi; l’uso dei proverbi e degli indovinelli in rima; il mio impegno nel recitare quel personaggio, non minore di quello dedicato ad altri personaggi da me interpretati in teatro. Per ultimo, e non meno importante, la presenza dell’altro fondamentale personaggio accanto a quello della Zingara: la LUNA NERA, diventata così famosa da entrare nei modi di dire degli italiani. Un’invenzione, quella della LUNA NERA, da attribuire probabilmente a Bruno e Umberto Broccoli, due degli autori del programma, padre e figlio, che scrivevano anche gli indovinelli in endecasillabi a rima baciata che io recitavo con aria solenne come fossero versi danteschi. Devo poi dire dei grazie specifici ad Aurelio Castelfranchi, che mi chiamò a fare il provino; Riccardo Donna, il regista dei primi anni di Luna Park, programma di cui inizialmente il gioco della Zingara faceva parte, e Gianfranco Di Pasqua, regista della Zingara Itinerante. Un ringraziamento particolare devo poi naturalmente a Pippo Baudo che, intuendo le potenzialità del personaggio della Zingara, lo valorizzò lanciandolo verso la notorietà.
Come si “sopravvive” a un successo clamoroso come quello della Zingara?
Ah, si sopravvive benissimo! Vede, io ho cominciato a fare la Zingara nel 1994 a 37 anni: avendo cominciato a recitare in teatro a 19 anni, avevo già avuto, prima della Zingara, ampiamente modo di avere, nel mio lavoro, varie illusioni e disillusioni ripetute nel tempo. Avevo anche smesso di fare l’attrice, per un periodo, troppo preoccupata dall’insicurezza connaturata alla mia professione di per sé instabile. In seguito decisi di riprendere a recitare e un anno dopo mi capitò il fatidico provino. In un certo senso, l’esperienza della Zingara si colloca quasi all’esterno della mia sfera lavorativa, sì: mi sembra abbia a che fare più con un’esperienza di vita (il successo, l’agiatezza economica…) che con caratteristiche proprie del mio lavoro, che ho sempre considerato più come un’opera di studio, di ricerca, di approfondimento. Anzi in un certo senso l’esperienza della Zingara, rispetto al mio lavoro di attrice vero e proprio, ha rappresentato come una pausa, una bolla temporale. In quel periodo mi sembrava di non avere tempo per nient’altro: ero chiamata a destra e a manca per interviste e “ospitate” – a pagamento o gratuite – di tutti i tipi, in televisione, ma anche in manifestazioni sportive o di beneficenza … Sembra strano a dirsi, ma soprattutto all’inizio, non riuscivo a prendere in considerazione la possibilità di vagliare quelle richieste: partecipavo spesso anche ad eventi che non mi interessavano. Non riuscivo a gestire le conseguenze del successo della Zingara e questo, mi viene da dire, aveva poco a che fare con il lavoro in sé, ma piuttosto con la capacità esistenziale di tenere le redini della mia vita e dirigerla nella direzione desiderata. Una capacità, un percorso, che – anche nella sua versione più sottile, ossia riconoscere le esperienze che ti avvicinano o ti allontanano di più da te stesso/a – non ha mai fine e al quale, per fortuna, puoi continuare a dedicarti per tutta la vita, anche, e soprattutto, dopo un’esperienza totalizzante come quella della Zingara.
Gli esordi di Cloris Brosca
La Zingara, però, è soltanto una piccola parentesi di una carriera lunga e fitta di successi. Torniamo indietro: ai suoi esordi, ha lavorato al fianco di artisti del calibro di Massimo Troisi (in Ricomincio da tre) e Giuseppe Tornatore (ne Il Camorrista).
Mah! Ad essere sincera, agli inizi del mio lavoro, soprattutto affrontando ambiti diversi dal mio solito, quello teatrale, spesso mi sentivo – come è ben descritto da un modo di dire napoletano – come “l’asino in mezzo ai suoni”, ossia frastornata. Ero probabilmente però troppo orgogliosa per mostrarlo all’esterno o forse consideravo quel disagio una forma di debolezza. Solo successivamente, ho capito che la fragilità dietro quel disagio è un elemento prezioso, simile alla bacchetta di un rabdomante: ha a che vedere con la sensibilità e con ciò che io apprezzo maggiormente nel lavoro di un attore o di un’attrice e cioè lasciar apparire – e quindi lasciare che gli altri possano vedere – cosa ti accade in una data situazione, in una data scena… Massimo Troisi possedeva al massimo grado questa capacità di essere senza filtri, senza difese, davanti alla macchina da presa, raggiungendo dei momenti altissimi nell’ultimo suo film Il postino, ma quest’arte era in lui presente già all’inizio della sua carriera d’attore ed è visibile anche nel primo film Ricomincio da tre a cui ho avuto la fortuna di partecipare. È la stessa arte sottile che fa scegliere a un regista come Tornatore – con sensibilità e ineffabile potere creativo – l’inquadratura, la luce, il suono con cui raccontare le scene dei suoi film.
Tanto cinema e tanta tv, nella sua lunga carriera, ma il suo grande amore è il teatro. Cos’è per lei il teatro?
Io penso che il teatro sia la forma di spettacolo più misteriosa e magica che ci sia. L’aspetto del teatro che mi interessa di più, anzi il solo che mi interessi veramente (in qualsiasi tipo di spettacolo: che si tratti di una commedia o di una tragedia, cha abbia l’apparenza del teatro di tradizione o di ricerca), l’aspetto che mi interessa di più, dicevo, è quello che permette allo spettatore, andando a teatro, di scoprire qualcosa di più su sé stesso/a, sulle sue caratteristiche profonde di essere umano e sui meccanismi di relazione che lo legano agli altri esseri umani. Diciamo che questo aspetto è comune – credo – a qualsiasi forma d’arte. Ma in teatro c’è qualcosa in più: la compresenza e la contemporaneità degli spettatori e degli attori durante l’evento teatrale. Uno spettacolo è un rito a cui si partecipa insieme. In teatro, come spettatori facciamo parte della situazione in cui si manifesta in modo irripetibile, la vita dell’attore sulla scena, che è allo stesso tempo reale e fantastica. Reale perché l’attore è li davanti a noi in carne e ossa – respira la nostra stessa aria – e fantastica perché l’attore in quel momento interpreta qualcuno di diverso da sé. Come spettatori lo sappiamo, ovviamente, ma vogliamo credere all’inganno, vogliamo essere rapiti, chiediamo, aneliamo, che anche per un solo istante l’attore – con la sua bravura, il trucco, il costume, la scena, le musiche che lo avvolgono – ci faccia dimenticare di se stesso e ci faccia credere di essere un’altra persona, o meglio: ci lasci credere che l’esperienza che vive in scena in quel momento sia reale. E tutto questo avviene – quando avviene – non nonostante gli spettatori, ma grazie alla presenza degli spettatori, al loro umore, alla loro energia, che renderanno la replica a cui assistono qualcosa di unico e irripetibile. (Così, aggiungo, com’è unico e irripetibile ogni momento della vita, ogni respiro; e forse questa consapevolezza è ciò che maggiormente ci fa entrare nel pieno della nostra esistenza di esseri umani). È chiaro che non sempre avviene questo miracolo. D’altro canto ci sono degli spettacoli in cui questo gioco connaturato all’arte teatrale viene messo a nudo e ricercato consapevolmente e altri in cui ce lo si dimentica totalmente.
In teatro, tra le altre cose, ha lavorato in Lila e Lenù, tratto da L’amica geniale di Elena Ferrante, che è anche una fiction di enorme successo. Che esperienza è stata?
Un’esperienza magnifica. Già leggere il libro è stata per me un’avventura appagante: mi sono sentita risucchiare all’interno della storia come se facessi parte delle vicende raccontate dalla Ferrante. Restituire poi quelle atmosfere, scegliere quali parole utilizzare per riportarle in scena mi ha portato a compiere un ulteriore viaggio tra le pagine del libro, un tuffo in profondità che mi ha permesso un rapporto ancora più stretto con il romanzo.
Cloris Brosca tra passato e futuro
Rivolgendosi al passato, ha qualche rimpianto?
I pensieri che hanno a che fare con i concetti di “avrei potuto”, “avrei dovuto” sono diabolici, sono degli ottimi modi per rovinarsi la vita e soprattutto non hanno alcuno statuto di realtà. Mi spiego meglio: più volte ho pensato “Ah, se avessi usato la notorietà della Zingara per veicolare i miei interessi più veri e profondi, quelli teatrali per esempio …” Ma a un esame più attento posso serenamente affermare che io ho fatto le azioni che ero in grado di fare in quel momento. Altre consapevolezze – quelle da cui scaturiscono poi quei pensieri giudicanti – sono arrivate per me solo dopo. Quindi sì, è vero, guardandomi indietro potrei dire “Se avessi agito così o colì avrei avuto risultati migliori nella mia vita”, ma sono considerazioni che nascono da consapevolezze, elaborazioni e pensieri nati solo successivamente. Per rendere l’idea – e lo dico per ripeterlo anche a me stessa – è un po’ come affermare “Ah, se all’età di due mesi avessi potuto – che so? – dare l’esame di maturità quanto tempo avrei risparmiato!”.
Nella sua carriera non si è risparmiata, ma se le chiedessi di chiudere gli occhi e sognare qualcosa per il suo futuro lavorativo, cosa le piacerebbe fare ancora?
Filumena Marturano. È difficile per me ammetterlo: spesso mi allontano, creo filtri tra me e i miei desideri, ma so che è un personaggio che mi piacerebbe interpretare. Dovrei studiare molto, già a partire dalla lingua, perché il mio dialetto non è pronto per un’impresa del genere, ma so che ci riuscirei. E, al di là del personaggio, sono fortemente attratta dal viaggio all’interno del testo. Già qualche anno fa partecipando a una Filumena Marturano, interpretata da Gloriana, cantante e attrice napoletana, con la regia di Nello Mascia (dove interpretavo Rosalia, la serva fedele di Filumena) il percorso all’interno del testo fu veramente interessante. Come tutti i grandi testi teatrali, Il copione, scritto da Eduardo De Filippo per la sorella Titina, è intessuto di particolari e sincronicità singolari, l’architettura della storia è affascinante. Immagino che rifacendo un viaggio all’interno di quel copione, interpretando la parte di Filumena, l’esperienza potrebbe essere ancora più stupefacente.
Siamo nell’epoca del revival, gli anni Novanta sembrano essere tornati prepotentemente di moda. Se le chiedessero di vestire di nuovo i panni della Zingara, accetterebbe? Crede che oggi potrebbe avere lo stesso successo di allora?
Non so: un mio amico carissimo, proprio qualche giorno fa mi diceva: perché non rifai la Zingara su Facebook? (o su Instagram, aggiungo io) Forse sarebbe il modo di ritornare su un’esperienza che nonostante tutto, pur essendo passata una ventina d’anni, sembra abbia ancora qualcosa da dire. Bisognerebbe però trovare una motivazione valida per rimettere in scena la Zingara e/o avere collaboratori che avessero un desiderio così vivo al riguardo da essere in grado di rivivificare e resuscitare quel personaggio.
Concludiamo così: il nostro magazine si chiama DonnaPOP e, per noi, il termine POP rappresenta qualcosa di bello, entusiasmante, accattivante. Cos’è per te POP in questo momento della tua vita?
Per me POP è far arrivare agli altri il mio discorso nel modo più avvincente, vivo e, nello stesso tempo, più fedele a ciò che sono. Mi spiego: in una comunicazione di qualunque tipo riconosco due poli: io e la persona – o le persone – a cui voglio parlare. Se spariscono gli altri, cioè se esprimendomi non risulto comprensibile e/o interessante, se gli altri non riescono a seguire ciò che dico, la comunicazione non avviene. Allo stesso modo non avviene se sparisco io: ossia se, per essere accettata, invece di dire quello che mi sta a cuore, mi dedico a comunicare cose che non mi appartengono o non mi interessano. Perché la comunicazione avvenga ci dobbiamo essere tutti e due: noi e gli altri, in un continuo gioco di affinamento delle proprie capacità per dare voce a ciò che siamo e raggiungere gli altri con ciò che vogliamo dire. Il POP per me potrebbe essere questo.
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