Syria, l'artista pop dai mille volti, si è raccontata a DonnaPOP: ecco alcuni racconti sulla sua adolescenza, sulla sua carriera e sul futuro
Definire Syria e la sua carriera ultraventennale non è affatto cosa semplice: l’artista romana, che ha esordito sul palco dell’Ariston nel 1996, quando ha presentato il brano Non ci sto, ha cambiato pelle e aspetto tante volte, perché incarna il prototipo perfetto della cantante pop. Da sempre curiosa, per questo camaleontica, attenta osservatrice e ascoltatrice, Syria ha spaziato attraverso vari generi musicali, ma non solo: negli anni, ha lavorato spesso in teatro e si è fatta apprezzare anche in consolle come dj.
E il futuro? È un’incognita, ma questo non la spaventa affatto, anzi: Syria va soltanto dove la porta la sua curiosità, che – come dimostra la sua carriera – può spingerla davvero ovunque. Ecco cosa ci siamo detti durante la nostra chiacchierata.
Le parole di Syria
Sono passati venticinque anni dal tuo esordio: nel 1995 hai ottenuto il primo posto nella manifestazione Sanremo giovani, interpretando Sei bellissima di Loredana Bertè, che ti ha permesso di arrivare all’Ariston, l’anno successivo.
Sai qual è la prima cosa che mi viene in mente? Che so’ invecchiata! (scoppia a ridere, ndr) Ho un ricordo molto bello dei miei esordi, Sanremo giovani non era come quello di oggi, io ci sono arrivata grazie a Claudio Mattone, il mio primo produttore, è stato lui a scoprirmi. Mi ha sentito cantare, ha creduto in me e ha puntato tutto su di me. Io venivo dalla strada, questa cosa la trovo molto romantica (sorride, ndr). È vero, sono la figlia di un discografico (Elio Cipressi, ndr), ho avuto la fortuna di imparare ad amare la musica sin da bambina e soprattutto di crescere circondata dalla musica, ma poi ho lavorato su me stessa e sul mio gusto, arrivando a crearmi una mia personalità. Quando ho capito cosa volessi essere e cosa volessi esprimere, ho iniziato a cantare, è stato in quel momento che Mattone mi ha scoperto. Sono stati anni belli, indimenticabili.
Sei cresciuta circondata dalla musica, l’hai detto. C’è un aneddoto di quegli anni che ricordi in particolar modo?
La quotidianità di mio padre era speciale, sicuramente fuori dall’ordinario, non aveva un cartellino da timbrare ogni mattina, ma si occupava di gestire gli artisti, di sostenerli, di promuovere i loro dischi. Ho tanti ricordi, ad un certo punto papà ha iniziato a portarmi con sé ovunque, non posso dimenticare tutte le trasmissioni che ho seguito da dietro le quinte, ad esempio Fantastico, Un disco per l’estate, mi portava alla premiazione dei Telegatti o a Sanremo. Ricordo i concerti di Mango o Mia Martini, ne avrò visti un centinaio. Per non parlare di quando alcuni artisti venivano a casa nostra, mi sono ritrovata a cenare al fianco di Sergio Endrigo, della stessa Mia Martini, di Mietta, che è una cara amica, di Mara Maionchi. Aspetta, mi è venuta in mente un’altra cosa…
Racconta.
D’estate, verso fine agosto, io e la mia famiglia andavamo sui Monti Lessini, a Verona, e la sera scendevamo all’Arena per la finale del Festivalbar. Me ne stavo dietro le quinte, conoscevo gli artisti, percepivo la loro tensione prima di salire sul palco. Da piccola, tutto questo per me era normale, oggi so che sono stata una privilegiata.
Immaginavi, allora, che su quel palco, un giorno, ci saresti finita tu?
No, assolutamente, non avrei mai immaginato che sarebbe andata a finire così, piuttosto immaginavo di avere una vita meravigliosa, con un papà che coinvolgeva me e mio fratello nella sua quotidianità, nei suoi viaggi, nei suoi incontri. La vita è buffa, ma forse la verità è che certe cose sono nel nostro dna: la mia famiglia mi ha trasmesso l’interesse, l’amore, la passione per la musica e io non ho potuto fare a meno di restarne coinvolta. Se avessi avuto un’altra famiglia, forse non sarebbe andata così.
Ti chiedo di guardarti ancora indietro. C’è qualcosa che ti ha fatto soffrire, in tutti questi anni di musica?
Quando tocchi l’apice di qualcosa, del successo o della felicità, rischi di farci l’abitudine. Poi, quando non accade più o non accade con la stessa intensità, finisci inevitabilmente per chiederti dove tu abbia sbagliato. Se mi è capitato di soffrire per questo mestiere? Sì, è successo quando ho tentato di partecipare a Sanremo con dei brani a cui tenevo molto, ma non sono stata presa. Poi, però, pian piano cresci, diventi più adulto e consapevole, ai successi e agli insuccessi inizi a dare un peso diverso. Smetti di pensarti come una macchina da guerra: fai il pezzo giusto, poi pubblichi il disco, poi il tour e poi di nuovo il pezzo giusto, poi di nuovo il disco e il tour. Non funziona così, non più, almeno. Le delusioni accadono, ma servono per acquisire lucidità e saggezza, è possibile fare musica anche senza ansia da prestazione, senza fretta. In gioventù avevo un’altra percezione di questo lavoro, oggi sono una donna adulta, sono felice per tante cose fatte, so che altre non sono successe, mi dispiace, ma sono innanzitutto orgogliosa di quello che è stato. No, non parlerei di sofferenza, ma forse di dispiacere, ci sono stati momenti in cui ero convinta di avere in mano la canzone giusta, ma non mi è stata data l’occasione di farla conoscere. Però, col senno di poi, guardo indietro e sorrido, sempre grata per quello che ho avuto la possibile di fare.
Poco fa, dicevi che da ragazzina sognavi di avere una vita meravigliosa, immersa nell’arte. Così è stato: dalla musica al teatro, non ti sei fatta mancare niente. Ti piace metterti in discussione, cambiare pelle, sperimentare. Non temi mai che il pubblico possa sentirsi disorientato per i tuoi continui cambiamenti?
All’inizio me lo chiedevo spesso, soprattutto per una forma di pudore che avevo nel fare questi passaggi bruschi da una cosa all’altra. Col tempo, ho capito semplicemente che era giusto assecondare il mio desiderio di sperimentare, quindi ho cercato di educare il mio pubblico al cambiamento. Non sono mai riuscita a essere una cosa sola, questa versatilità è un modo per far conoscere tante facce di me. Mi è capitato, ad esempio, con il progetto elettronico che ho pubblicato nel 2009 con lo pseudonimo di Airys, che era tutto il contrario di Syria: sono finita su Rolling Stone, su Playboy, ho fatto cose che non avrei mai pensato. Oggi le cose stanno cambiando, i cantanti mostrano diverse facce di sé; del resto, se sei un artista, se sei devoto ad un certo tipo di racconto di te, puoi mostrare tutti i tuoi volti, pur mantenendo un filo conduttore che giustifica l’evoluzione che metti in atto. Oggi non mi faccio più alcun problema, ma all’inizio sì, perché mi era stata inculcata l’idea che un artista debba essere sempre fedele a se stesso, sempre coerente, sempre uguale. Col tempo ho acquisito le mie sicurezze, mi sono fatta un’idea precisa di me e di quello che voglio essere, ho iniziato a guardarmi intorno e studiare culture diverse, ho osservato realtà lontane e mi sono messa in discussione. No, non ci sto ad essere una cosa sola, non mi divertirei, non sarei pienamente me stessa.
A tale proposito, nell’ultimo anno sei stata impegnata con lo spettacolo teatrale Perché non canti più, un omaggio a Gabriella Ferri, ideato con Pino Strabioli. Com’è nata l’idea di portare Gabriella Ferri in teatro?
È nato dalla voglia di leggere, conoscere, approfondire delle cose che non conoscevo ancora. Quando diventi più grande, quando smetti di affannarti e ti prendi del tempo per te, puoi chiederti cosa ti manca, cosa ti piacerebbe sapere per arricchirti, per appagare il desiderio di conoscenza. Gabriella è arrivata così, per caso, grazie a un libro che mi ha regalato mio marito (Pierpaolo Peroni, ndr), allora ho deciso di approfondire la sua conoscenza, ho scoperto i suoi disegni, le sue poesie, ho riascoltato la sua discografia. Allora mi sono messa in testa di raccontarla al grande pubblico, ho parlato con Pino Strabioli, lui mi ha fatto conoscere la sua famiglia. Hai presente le formiche che raccolgono il cibo e lo mettono al sicuro? Ecco, è questo quello che cerco di fare, mi guardo intorno, prendo quello che mi piace, mi lascio trasportare dalla curiosità, poi, quando ho da parte materiale a sufficienza, inizio a lavorarci. Lo spettacolo su Gabriella è stato incredibile, mi ha permesso di andare in giro per l’Italia e capire quanto sia amata e quanto la sua arte sia più che mai attuale. Il mio tempo è scandito dalla curiosità, per un’interprete, del resto, è fondamentale. Sembra quasi che noi interpreti dobbiamo trovare la canzoncina giusta, inciderla e fare un disco per saziare il nostro ego. Io, con questo spettacolo su Gabriella, mi sono resa conto di quanto sia bello, per me che sono una interprete, condividere col pubblico un ricordo, farmi portavoce di una storia importante e provare a offrirla a chi vuole conoscerla. E, così facendo, ho capito una cosa importante.
Che cosa?
Che non ho più voglia di fare dischi. In questo preciso momento storico, poi, se non hai Sanremo alle spalle, significa darsi la zappa sui piedi, ma io non ho la voglia e la forza per farlo. Lavorare in teatro, invece, è un porto sicuro, mi fa star bene, mi permette di sperimentare e approfondire nuovi lati di me. In questo momento, sto lavorando a un nuovo progetto teatrale, sempre con Pino Strabioli, ma siamo ancora in una fase embrionale. Al momento, sono felice di quello che faccio, mi sono sempre messa al servizio della musica, ma in questo momento mi sembra più ragionevole farlo in teatro che con un disco. Ora come ora, avrei una paura fottuta di rimettermi in gioco con un album; oggi i cantanti siamo tanti, troppi, non avendo a disposizione la canzone giusta per propormi al pubblico, preferisco non farlo affatto.
E di Airys che mi dici?
Non ti nascondo che Airys potrebbe tornare, perché quello è un gioco. Quando, ormai undici anni fa, mi sono proposta con un nuovo nome e un nuovo genere, mi davano della pazza! (ride, ndr) Ricordo che la Sony, la mia casa discografica di allora, fece ascoltare quei brani ad una radio famosa e loro dissero «Questa è impazzita, ma di cosa si fa?» (scoppia a ridere, ndr). Ci pensi? Io ero considerata pazza, oggi, invece, se non fai un pezzo elettronico, non sei nessuno. Airys è istinto, è leggerezza, è un gioco bizzarro che mi piacerebbe riprendere.
Mi permetto di dividere la tua carriera in due parti: i primi dieci anni, ti hanno visto impegnata nel ruolo di interprete pop; nella seconda parte, invece, non ti sei risparmiata: un album di cover indie, il progetto elettro pop di Airys, il teatro, la consolle, lo spettacolo Bellissime, in cui canti i brani delle più grandi signore della canzone italiana. E infine un best of, 10+10, in cui hai sintetizzato i tuoi primi vent’anni di carriera.
Quando, tre anni fa, ho pubblicato il mio primo best of per festeggiare i vent’anni di carriera, è stato un modo per ringraziare chi mi ha seguito e mi ha voluto bene sin dal 1996, quando ho fatto Sanremo per la prima volta. Dopo quel disco, mi sono detta «Va bene, per me basta così». Senza proclami, in punta di piedi, ho semplicemente fatto un passo indietro. Oggi, più che mai, ho voglia di fare quello che mi va, sempre nei limiti della decenza e finché me ne sarà data l’opportunità. Ho nostalgia di tante cose, senza dubbio, ma oggi sono sicura di ciò che voglio. E poi mi piace fare la mamma, guardare la vita attraverso gli occhi dei miei figli: Alice ha diciotto anni, Romeo ne ha otto, voglio godermi tutto di loro, senza rimpianti.
Veniamo al presente: sta per partire la settantesima edizione del Festival di Sanremo. Tu, lo scorso anno, sei salita sul palco dell’Ariston con Anna Tatangelo, durante la serata dei duetti, e il tuo nome è schizzato in cima ai topic di Twitter. Un successo incredibile.
Quella notte, dopo il Festival, sono ripartita subito per Milano. Durante il tragitto, ho fatto un giro sui social e ho letto tutto: è stato emozionante. L’affetto che ho percepito mi ha fatto felice, mi sono commossa. Mi ha dato la forza e la voglia di andare avanti, di credere in quel che sono e in quel che oggi ho voglia di fare. Non ho pensato di tornare in gara al Festival, ma di portare avanti i miei progetti teatrali con ancora più passione e determinazione. Un’altra cosa bellissima è avvenuta nel momento in cui sono salita sul palco accanto ad Anna: non ho avuto paura, ma mi sono sentita bene, ho pensato «Questo è il mio posto». È stata una sensazione bellissima, appagante e confortante. È bello sentirsi così dopo tanti anni.
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Se ti guardi indietro, c’è qualcosa che non rifaresti assolutamente?
Forse il mio primo album: era costruito a tavolino, senza sapere ancora che direzione dovessi prendere, infatti ci sono pezzi che non ho mai ricantato. Per il resto, probabilmente avrei dovuto avere la lucidità di capire che certe persone non avrebbero fatto del bene al mio percorso professionale. Avrei dovuto evitarle, ma ero giovanissima, non ero lungimirante. Oggi, col senno di poi, non mi fiderei più.
Ti propongo delle domande veloci: qual è il disco della tua vita?
La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria, un disco di Ornella Vanoni realizzato in collaborazione con Vinícius de Moraes e Toquinho. Un disco, questo, che ho ascoltato tanto da ragazzina e oggi sta tornando prepotentemente nella mia vita. Basta, non posso aggiungere altro! (ride, ndr)
La canzone della tua vita?
Non ce n’è una soltanto, direi tutte quelle di Claudio Baglioni, lo amo sin da quando ero piccola! Dai, facciamo Mille giorni di te e di me.
E il libro?
Non ne ho uno nello specifico, ma amo tutte le biografie che parlano di artiste che hanno fatto la differenza: scrittrici, pittrici o cantanti, è indifferente.
Concludiamo così: il nostro magazine si chiama DonnaPOP e, per noi, il termine POP rappresenta qualcosa di bello, entusiasmante, accattivante. Cos’è per te POP in questo momento della tua vita?
Viaggiare è assolutamente pop. E aggiungo anche avere curiosità e studiare, approfondire. Sai cosa ho detto l’altro giorno a mia figlia Alice?
Cosa?
Lei è al quarto anno di Liceo Artistico. Le ho detto «Goditi questi anni di scuola, leggi, approfondisci, impara, non c’è niente di più bello di scoprire cose nuove». A volte non lo capisci subito, serve del tempo per rendersene conto, ma avere curiosità e conoscere è davvero incredibile. Pensa che io, da ragazzina, ho studiato pianoforte con Giovanni Allevi, quando lui non era ancora famoso. Poi, purtroppo, ho smesso, ma oggi avrei voglia di ricominciare, di rimettermi in gioco. E forse, adesso, con la curiosità che ho, potrei ottenere risultati migliori di allora. Studiare è bellissimo, non dovremmo dimenticarlo mai.